Homo copula mundi
17 Ottobre 2013Racconto del Disco: Energie – Giuni Russo
25 Ottobre 2013Non volli.
Non volli dirti nulla.
Vidi nei tuoi occhi
due alberelli folli.
Di brezza, di riso e d’oro.
Oscillavano.
Non volli.
Non volli dirti nulla.
Federico Garcìa Lorca, All’orecchio di una ragazza
Sono decenni, ormai, che ce lo sentiamo ripetere: siamo nell’Era dell’immagine. Nel corso del XX secolo, nel giro di pochi decenni, le telecomunicazioni sono passate dall’essere radiofoniche a prevalentemente televisive; la comunicazione pubblicitaria comprese subito di poter raggiungere i suoi scopi molto più efficacemente attraverso il titillamento allusivo e subliminale delle pulsioni, agito con le immagini, che per mezzo della convinzione fondata sull’ascolto e, come perfetti rappresentanti di questa umanità a bagno negli spot, i membri delle società occidentali hanno cercato e cercano di somigliare sempre di più a quelle immagini, tanto da non comprendersi più chi sia lo specchio e chi il rispecchiato.
Certamente l’occhio ha ed ha avuto ampiamente la sua parte.
Ma c’è stato un tempo, ormai lontano lontano, in cui era l’orecchio a farla da padrone.
Mi riferisco all’epoca precedente all’uso della scrittura, l’epoca delle tradizioni orali, quella grazie alla quale sono giunte a noi, ad esempio, l’Iliade e l’Odissea.
È noto infatti che il misterioso Omèro – lo scrittore cieco! – o chi per lui, abbia fissato per iscritto una narrazione che si tramandava da secoli prima della sua nascita. E se in questa conservazione, fondamentale sarà stata la memoria, altrettanto lo sarà stato l’ascolto.
Orecchie aperte! Arrivano gli aedi a cantarci del Pelìde e della sua furia e poi di Nausicaa che soccorse Odisseo nel suo peregrinare nel Mediterraneo, dopo aver fatto crollare una città fortificata e concludere così un assedio durato dieci anni.
A pensarci bene, sia gli occhi che le orecchie sono schiaffeggiati ripetutamente, in quest’epoca.
Innumerevoli immagini colpiscono le nostre retine e ci saturano di impressioni, mentre i timpani vibrano delle suonerie dei cellulari, degli allarmi delle automobili, dei jingle, dei ticchettii, dei trilli, degli stridìi… La funzione dell’ascolto, legata all’organo dell’udito, l’orecchio, ne risulta, anche per questo offesa e confusa.
Per ascoltare le orecchie non bastano: serve attenzione, apertura, disponibilità, sia che si tratti di un amico che ci racconta di sé sia che si tratti della più bella musica al mondo.
Ma è dalle orecchie che si parte.
Orecchio, etimolgia
La parola orecchio è frutto della modificazione della parola latina orìcula, latino rustico, ossia parlato nelle campagne e di aurìcula, latino classico, diminutivo di auris, orecchio.
Il sostantivo auris è a sua volta è ricollegabile alla radice sanscrita ‘avami’, faccio attenzione, a significare come l’attenzione si eserciti attraverso il canale cognitivo dell’udito.
Orecchi assoluti, relativi ed interiori
Ora, a parlare di musica e di orecchie, non può che venire il mente il musicista e compositore la cui biografia più di ogni altra è collegata al triste destino del suo udito: Ludwig Van Beethoven. Beethoven pare fosse dotato dell’orecchio assoluto, ossia di quella capacità di identificare una nota musicale avendola ascoltata anche una sola volta, senza l’ausilio di un suono di riferimento per determinarne l’altezza assoluta, cioè la frequenza. Certamente un grande vantaggio per un musicista. Ma tutti sanno anche che Beethoven a seguito di una malattia, ancora oggi non bene accertata, ha cominciato ad un certo punto a diventare sordo. In una lettera del 1801 all’amico Franz Gerhard Wegeler, scrive: «[…] mi debbo mettere vicinissimo all’orchestra per comprendere ciò che l’attore dice e […] i suoni acuti degli strumenti e delle voci, se sto un po’ lontano, non li sento affatto. […] Inoltre, talvolta odo a mala pena chi parla piano. Odo i suoni ma non distinguo le parole; mentre, invece, se appena uno grida mi è addirittura impossibile sopportarlo […]»
E uno studio recente (2011), pubblicato sul British Medical Journal, ci rivela una cosa ancora più interessante. Ci sarebbe una evidente corrispondenza fra i cosiddetti “tre stili di Beethoven” e la progressione della sua sordità. Le composizioni del celebre musicista tedesco sono stare raggruppate dai ricercatori in base a quattro periodi temporali (dal 1778 al 1800, dal 1805 al 1806, dal 1810 al 1811 e dal 1824 al 1826). Gli studiosi hanno quindi osservato che poco dopo i primi sintomi documentati di ipoacusia, nei quartetti dell’Opera 18 c’era circa un 8% di note alte. Dal 1805, via via che le difficoltà di udito aumentavano, si scende al 5% (Opera 59), e ancora al 2% (Opera 74 e 95), e questo proprio quando Beethoven raccontava di dover usare cotone nelle orecchie per contrastare uno sgradevole ronzio.
Dal 1825 in poi il compositore, che non poté mai ascoltare la sua Nona Sinfonia, aumentò il numero di note alte nelle sue opere. Ed infatti, secondo gli studiosi, la percentuale salì a quasi il 4%. “Questi risultati – spiega Edoardo Saccenti, ricercatore italiano dell’Università di Amsterdam – suggeriscono che, con la progressione della sua sordità, Beethoven tendesse a utilizzare note con una frequenza media e bassa, che avrebbe potuto sentire meglio”. “Quando poi è stato costretto ad affidarsi completamente al suo orecchio interiore, non era più obbligato a produrre musica che poteva davvero sentire. Così è lentamente tornato al suo mondo musicale interiore e alle precedenti esperienze di composizione”. Lo studio, però, comprende solo una parte delle composizioni del grande musicista “i nostri risultati sono ben lungi dall’essere conclusivi: provare in modo definitivo che la perdita dell’udito di Beethoven abbia avuto un impatto notevole nel plasmare il suo stile musicale – conclude il ricercatore – richiederebbe analisi statistiche complete di tutto il catalogo delle sue opere”.
Beethoven, quindi, nell’ultima fase della sua vita di compositore, coincisa con la perdita totale dell’udito, avrebbe cominciato ad utilizzare solamente il suo “orecchio interiore”, ossia quel “senso interno” responsabile del processo d’immaginazione sonora, ben noto ai musicisti. L’orecchio interiore permette di poter immaginare un intero pezzo di musica o di sentire “nella testa” un pezzo sconosciuto solo leggendone lo spartito.
E quindi, orecchie aperte, sia dentro che fuori. E la buona musica aiuta.