Adamo che parla a Dio della relatività del tempo e dei seni di Eva
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16 Maggio 2014Un estratto dell’intervista alla scrittrice Maura Chiulli, autrice del libro – Dieci Giorni – Edizioni Hacca. L’intervista integrale la trovi qui: Il Lupo e Contadino – Vol.24 – Intervista con Maura Chiulli
(…A me sembra che ci sia in Italia, soprattutto, una differenza fra i diritti dei gay e delle lesbiche. Mi spiego meglio: la nostra percezione è che ci sia molto più rilievo sul mondo dei gay che sul mondo lesblo, sia come tempo in cui se ne parla, sia come flusso di informazioni, come notizie, mi piaceva sapere un tuo punto di vista.)
Maura Chiulli: Sicuramente è una riflessione calzante. In Italia di lesbiche, si parla ancor meno che di persone omosessuali o transessuali, questo perchè, secondo me…torniamo sempre al paradigma del genere. C’è ancora una differenza: guardiamo adesso nelle elezioni, nelle cariche politiche, nelle cariche istituzionali…le donne hanno sempre purtroppo ancora un ruolo subalterno rispetto agli uomini, e questo accade in tutti gli ambiti, soprattutto in quelli legati all’ambito sessuale, in cui si accavalla un’altra problematica che è quella legata al desiderio: le donne che desiderano piacciono molto meno al macho, all’uomo forte che detta le regole del gioco. Una donna che dichiara il proprio orientamento sessuale apertamente; una donna che dichiara il suo essere desiderante, questo credo che non piaccia assolutamente in un paese come questo, ancora molto legato a una tradizione retrograda e a un paradigma incivile e maschilista.
(Ma questa differenza è vissuta quindi anche all’interno del mondo dell’arcigay?)
Maura Chiulli: In arcigay abbiamo molte donne, però sentiamo ancora queste differenze e le subiamo queste differenze di visibilità più che di trattamento. Arcilesbica è una grandissima associazione che in Italia si occupa precisamente dei diritti delle lesbiche. Purtroppo però di arcilesbica si parla ancora meno che di arcigay, per esempio. Questo è un problema che sarebbe bello affrontare soprattutto nei media…
L’intervista di cui leggete qui sopra uno stralcio ci ha ispirato alcune riflessioni sulla visibilità delle donne, inferiore a quella degli uomini a quanto pare anche nel mondo omosessuale e sul femminile.
E allora…
Viviamo nel secondo decennio del XXI secolo, lontani di una quarantina d’anni dall’affermarsi dei movimenti femministi occidentali. Oggi, però, la parola “femmina” più che ai diritti delle donne è associata soprattutto al neologismo femminicidio. Linguisticamente è raccapricciante ma, a quanto pare, è il meglio che si sia riusciti a concepire per identificare un particolare tipo di assassinio, quello perpetrato dagli uomini sulle donne e che si connota per la non accettazione da parte dei maschi del potere femminile – umano! – di autodeterminarsi. Personalmente ho sempre preferito alle parole donna e uomo la parola persona. La trovo meno vincolante e neutra proprio perché non indicando né il maschio né la femmina li comprende entrambi, così come include i bambini, i vecchi, gli eterosessuali, gli omosessuali, i bisessuali, i transessuali e gli asessuati. E poi mi dà come l’impressione di riparare, fosse pure per poco, dalla caduta massi degli stereotipi di genere e dai “noi donne, voi uomini” limitanti per l’individualità come tutti i raggruppamenti, i partiti e le categorie. A un certo punto però, mi sono detta, “ma non avrai qualche problema con femmina e femminilità?” Allora, cogliendo l’occasione che la rubrica mi offre, mi metto alla ricerca di una risposta, che sia buona per me e magari anche per qualcun altro, prendendo le mosse da quello che è il principio: la parola femmina. Femmina e il latino fœmina. L’origine è chiaramente antichissima e pare si colleghi alla radice sanscrita -dha divenuta attraverso una serie di passaggi fonetici fe- da cui il verbo felare, succhiare (vedi anche il sanscrito dha- rù poppante e il greco antico thào succhio il latte). La femmina pertanto, in contrapposizione al maschio, è quella che allatta, la nutrice, la procreatrice. Ottimo tutto questo per le ere matriarcali e per le civiltà che non considerano il corpo una cosa turpe. Da noi però, nel tempo, è stata associata a femmina, oltre che il significato primo di animale di genere femminile, tutta un’altra serie di significanti secondari. Nel Medioevo, ad esempio, il lemma “donna” (contrazione del latino domina, padrona di casa, che sottolineava la nobiltà d’animo e una condizione socioculturale) si contrapponeva in modo molto netto a “femmina” che evidenziava solo l’aspetto corporeo con un più sottile senso dispregiativo. Ad esempio, nel Galateo di Monsignor della Casa si può leggere al cap. XXVI: “se tu vedessi una nobile donna e ornata posta a lavar suoi stovigli nel rigagnolo della via pubblica […] sì ti dispiacerebbe ella […] perciocché lo esser suo sarebbe di monda e di nobile donna, e l’operare sarebbe di vile e di lorda femmina”. Si aggiunga poi a tutto questo, le svariate associazioni di senso misogine legate alle religioni monoteistiche di origine patriarcale che temevano (e temono…) le donne e la femminilità. Così, per citare il solo Tertulliano (De cultu feminarum) la donna è “porta del diavolo”, a meno che non eviti di adornarsi e mortifichi se stessa. Evitiamoci pure San Girolamo, padre e dottore della Chiesa, per il quale toccare le donne comportava il massimo della perdizione e andiamo avanti. Oggigiorno, al di fuori dei discorsi caratterizzati ideologicamente, parliamo di femmine e di maschi quando vogliamo individuare la composizione di gruppi in base al genere, come nelle statistiche delle nascite o a scuola oppure quando riempiamo un modulo, anche se in quel caso tutto si riduce ad una M o ad una F dentro un quadratino. Al di là di questi contesti, il riferirsi ad un essere umano di genere femminile usando la parola femmina invece di donna (o persona) imprime alla frase una forte connotazione sessuale o sessuata come in è proprio una bella femmina o roba da femmine. A questa poi si aggiungerà il senso dato dal contesto, dalla provenienza regionale, dalle convinzioni e dalle intenzioni di chi sceglie di esprimersi così con tutta una serie di ricadute comunicative di apprezzamento o di spregio.
Femmina, femminile, effeminato, femminuccia.
E poi c’è il femminino, l’eterno femminino, das Ewigweibliche, di Goethe
CHORUS MYSTICUS
Ciò che trapassa Non è che un simbolo;
L’irragiungibile
Si compie qua;
Ciò ch’è ineffabile
Qui divien atto;
Femmineo eterno
Qui ci trarrà.
È all’anima umana che il grande tedesco si rivolge. Presente nell’uomo e nella donna, l’anima è quell’elemento femminile, passivo, attratto dal principio maschile cosmico che salva Faust dalla dannazione eterna. Per Goethe l’amore e il dono di sé sono caratteristiche precipue del principio femminile e quindi dell’anima. Pace fatta.