Igor Sibaldi e la mappa del tesoro – l’Intervista Radiofonica Integrale
7 Febbraio 2014Di quello strano nostro incontro con Freak Antoni.
12 Febbraio 2014A volte le associazioni più scontate sono anche giuste.
L’anno passato, così per scherzo, avevo detto che il Fato altri non era che una fata maschio e un po’ ciccione (vedi immagine qui accanto).
Ma se ci si domanda e si va a guardare quello che è già sotto gli occhi, come spesso accade, si possono fare delle belle scoperte.
Fata è infatti uno degli epiteti delle Parche, divinità romane assimilate alle Moire della mitologia greca Cloto, Lachesi ed Atropo, le tre figlie di Zeus e Temi. Le Moire filavano, tendevano misurandone la durata e tagliavano i fili delle esistenze umane, così presiedendo al destino degli uomini, al loro Fato.
La parola latina fatum è evidentemente connessa con l’antichissimo verbo for, faris, fatus sum, fari. Fari, il cui participio passato è fatus, neutro fatum è l’equivalente del greco phemì il cui significato è dire, parlare, narrare, vaticinare. La traccia ancora evidente di queste radici in italiano è, ad esempio, nelle parole facondo (eloquente) ed infante (che non parla) ed è all’origine del latino fabula da cui gli italiani favola e fiaba. Il fatum, plurale fata è quindi ciò che è stato detto, sentenziato, vaticinato. I fata erano appunto le attività svolte dalle Moire.
Ciò che rende la parola fata degna di ulteriore approfondimento è che dalla medesima derivazione linguistica sono scaturiti nelle lingue romanze e non solo altri lemmi atti a designare lo stesso significato. L’inglese moderno fairy, ad esempio, si ricollega al medievale faierie (ma anche fayerye, feirie, fairie) ed è mutuato direttamente dal francese antico faerie (féerie in francese moderno). Fairy indica la terra o il reame o l’attività caratteristica (incantesimi) del leggendario popolo del folklore e della letteratura chiamato in francese antico faie or fee. E così pure il portoghese fada e lo spagnolo hada.
Ma guardiamo le fate un po’ più da vicino. Nell’immaginario popolare dell’intera Europa, che poi ha dato origine alle fiabe che dalle fate sono molto popolate, esse sono personaggi dalle fattezze umane, femminili come le Moire, eterici e dotati di poteri magici. Forse non è per caso che nelle fiabe insieme alle fate ci sia spesso il fuso, il filo, il tessere e disfare e il sonno mortale (fatale!) per aver toccato il fuso…
Sebbene ricordino esseri di varie tradizioni mitologiche non è chiara l’origine della loro inclusione nel folklore: attraverso quali passaggi? Erano demoni, angeli, divinità precristiane assimilate alle ninfe e, appunto, alle Moire? In inglese, del resto, con il termine fairy si indicavano tutte le creature magiche, inclusi i goblins o gli gnomi. Epperò le fate, come le ninfe, sono spiriti naturali che hanno sembianze di fanciulla; come le Parche presiedono al destino dell’uomo, distribuendo vizi o virtù e con il passare del tempo la tradizione attribuì loro la verga o bacchetta magica come l’aveva la maga Circe nell’Odissea.Nel suo scritto del 1691, “La comunità segreta degli Elfi, Fauni e Fate”, il Reverendo Robert Kirk scrive a proposito delle fate: “Questi Spiriti o Fate vengono chiamati Sleagh Maith o la Buona Gente…si dice siano mezzo uomini e mezzo angeli, come si diceva lo fossero i Demoni; dotati di spirito intelligente e fluido e di corpi leggeri e mutevoli, ( come quelli chiamati Astrali ) a volte della natura di una nube condensata, si vedono meglio al crepuscolo. Questi loro corpi sono così sensibili al controllo degli Spiriti che li agitano, che possono apparire e sparire a loro piacimento.”
Tutta la tradizione popolare italiana è popolata dalle fate. Per esempio, in uno stralcio dello studio del 1927 di Nino Massaroli Diavoli, diavolesse e diavolerie in Romagna la fata è “una veccia-vecchina; pulita, linda, dall’aria casalinga e simpatica di nonnina (…) Essa ha un preciso e gentile incarico, un esatto compito: disfare i malefici delle streghe; difendere le creature prese di mira dai geni del male, dai mostri della notte (…) Le fatine romagnole amano mostrarsi sotto forme piccolissime (…) La fata romagnola abita nella cappa del camino, sulla quercia dell’aia, nei pignattini del pagliaio.”
Oppure le fate sarde, piccolissime abitatrici di buchi scavati nelle rocce (le domus de janas). Uscivano solo di notte per evitare che i raggi del sole rovinassero la loro pelle candida. Costrette a percorrere i sentieri ripidi e ricoperti di rovi che le separavano dai templi nuragici, le janas diventavano luminose ed evitavano così le spine.
Anche le janas, come le Moire e le altre fate hanno a che fare con i fili. Abilissime nella tessitura ed in ogni altro lavoro domestico, accompagnavano il loro operare con un bellissimo canto la cui melodia si spandeva nell’aria nelle notti silenziose confortando i viandanti solitari.